Lettura di Papini
Pubblicato in: L'Approdo, anno II, fasc. 2, pp. 36-42
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Data: aprile-giugno 1953
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In letteratura, come del resto nella vita, si tende sempre a fare coincidere la giustizia con 1e nostre abitudini e con le reazioni determinate dal gusto e dalla moda. Una riprova di questa 'legge del comodo' l'abbiamo con Papini o meglio con il giudizio che di solito diamo dell'opera così vasta di Giovanni Papini. Sono ormai cinquant'anni che Papini lavora, se lasciamo da parte i primi articoli, i due primi articoli dello scrittore apparsi nel 1902 e che riflettono altre ragioni e interessi diversi da quelli letterari sono cinquant'anni da quando Papini ha cominciato a fare programmi sulla sua rivista Leonardo. Ricordate come ne parla nell'Uomo finito: «Si voleva fare un giornale assolutamente diverso dagli altri e che fosse per tutti i versi, anche nella veste, inattuale. Carta a mano scura e scabra invece di carta bianca e liscia: incisioni in legno fatte da noi medesimi invece dei meccanici zinghi e degli impersonali reticolati; figure e simboli invece di firme: nomi poetici e sonori invece de' nostri cognomi oscuri e disarmortici. E tutti quanti d'accordo si lavorava perchè il giornale uscisse fuori bello, ricco, originale, sorprendente in ogni sua parte. Non c'era più divisione del lavoro: si videro poeti che scrissero di filosofia: filosofi che cominciarono a incidere il legno: eruditi che esposero liricamente le loro metafisiche; pittori che si provarono a far critica e teoria. Vi era un rimescolio gioioso, un capovolgimento instabile, una furia nervosa come se tutta la vita di ognuno e di tutti stesse per ricominciare; come se l'umanità uscisse allora da un sonno di secoli o da un castigo divino e ci fosse l'universo da ricostruire. Qualche soffio dello Sturm und Drang passava tra i nostri capelli mentre si stava chinati sopra le bozze e i disegni o si vociferava in piedi, col viso acceso, sulla grandezza dell'arte, sul genio di Michelangelo o sull'esistenza della materia. E quando s'usciva, giù, nel cortile buio, s'accendevano le zuffe e le finte battaglie, ch'eran necessarie per buttar via il di più di forza che quell'agitazione metteva addosso a tutti noi. Ogni arma era buona: i fioretti, i bastoni, i pugni. Si facevano orribili assalti di scherma che a volte finivan col sangue e s'andava a casa colle mani peste e il viso graffiato, felici e frementi come se anche il corpo avesse diritto di prender parte alla festa dello spirito.
Ma finalmente l'attesa finì. Dopo aver parlato, gridato e lavorato per due mesi interi il primo numero andò in macchina e una sera tardi, dopo le sette, giunsero su per le scale buie del palazzo i primi pacchi del Leonardo a noi che si aspettavano a gloria, inquieti e silenziosi. Era il quattro gennaio del 1903».
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Quando Papini scriveva questa pagina dell'Uomo finito aveva già percorso la prima parte del suo cammino: nel 1912 infatti lo scrittore si era già lasciato dietro le spalle molte esperienze, forse le più audaci, le più coraggiose e cominciava una stagione di meditazione e di assestamento che si sarebbe conclusa qualche anno più tardi nella conversione e nella Storia di Cristo. Guardiamo un pò da vicino questi anni della prima formazione: anni di grande lavoro, Leonardo, poi la Voce, infine quella bellissima rivista che è durata un anno ed è stato il frutto della sua collaborazione con Amendola, L'anima e i libri: a cominciare dal primo, uno dei libri più singolari della nostra letteratura e così rivelatore per la storia dello stesso Papini; il Tragico Quotidiano del 1906 e sempre di quest'anno Il crepuscolo dei filosofi, del 1907 Il Pilota cieco, del 1911 l'Altra metà e le Memorie d'Iddio e la Vita di Nessuno, del 1912 Parole e sangue, 24 Cervelli e finalmente nel 1913 Un Uomo finito. Se uno guardasse con qualche attenzione al numero delle idee messe sul mercato da Papini, agli scrittori che ha fatto conoscere, insomma a tutta la parte di feconda eccitazione intellettuale che ha scatenato, gli verrebbe fatto un bilancio intero e sicuro, sarebbe, cioè, costretto a fare quell'esame di coscienza che a proposito di Papini siamo soliti a tralasciare o a tirare giù. Ma ecco che abbiamo toccato un altro punto centrale della questione: Papini è uno di quegli scrittori che obbligano a un commercio di natura sentimentale, generalmente al momento dell'incontro suscita nel lettore una condizione amorosa, un modo di trasporto, una correzione sentimentale che per forza di cose non può durare e si aspetta quindi il momento del riscatto, della liberazione: ora riscatto e liberazione avvengono nell'ambito dell'ingratitudine e si è portati a sostituire alla passione l'oblio, alla partecipazione un rifiuto netto, basato sull'ingiustizia. Se si facesse per ognuno di noi, dico per tutti quelli che sono venuti dopo Papini e hanno imparato qualcosa da lui, un bilancio del genere si vedrebbe che la parte del nostro debito è infinitamente superiore alla parte d'errore e d'incertezza che abbiamo potuto derivare dalle sue parole ma anche questo è un segno vivo per stabilire la forza del suo carattere. Papini è un introduttore, a Papini interessa la verità legata al senso della novità, Papini è un inventore quotidiano, instancabile, attento. Che cosa non ci ha fatto conoscere! Da Unamuno a Ungaretti, da Serra a Slataper, è tutta una provincia intellettuale e culturale che ci ha messo di fronte e non conta ripeterci Papini non ha fatto questo, Papini non ha detto questo, Papini non ha concluso nulla, la verità sta in proposizioni contrarie e opposte Papini ci ha messo davanti molti libri, molte persone, molte cose, Papini ci ha dato — almeno per molti anni, per trent'anni almeno, fino a quando, cioè, non è stato toccato da preoccupazioni d'altro genere e anche per lui non è cominciato il tempo dell'ordine a tutti i costi — ci ha dato, dicevo, il bisogno di cercare la verità. Anzi questo bisogno quotidiano di inventare un pretesto per i suoi lettori l'ha portato a non insistere su certe cose, a restare nell'ambito dell'accenno e della semplice illuminazione e si capisce che un tal modo di studio fulminato abbia dato i suoi frutti maggiori nella mitica Italia fra il 1900 e il 1915: quella è la grande stagione di Papini, la stagione dei fermenti e delle sollecitazioni. E per completare il quadro va detto che tali fermenti il Papini li ha trovati e scoperti in diversi campi: nel saggio, in poesia, nella fantasia e forse anche per questa difficoltà di seguirlo in luoghi così diversi
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riesce più difficile fare un bilancio e mettere bene in chiaro quello che gli dobbiamo. Egli stesso si è molte volte lamentato di questo comportamento della critica che tendeva a isolarlo su determinate isole della letteratura, trascurando così quello che era il suo tempo naturale di collaborazione intera. Eppure non sarebbe difficile fare una antologia dello scrittore che ne mettesse in luce tutti questi aspetti così contraddittori in superficie e in realtà legati fra di loro verso una pronuncia unica. Comincerei con lo scrittore di fantasia del Tragico Quotidiano e sarei sicuro di ritrovare questo filone molti anni dopo, con Gog e con Il libro nero. Ricordate Colui che non potè amare, la favola dell'incontro di don Giovanni con Giovarmi Buttadeo, detto l'Ebreo Errante?
«Sotto la maschera della mia leggenda c'è, forse un sorriso, un amaro sorriso, ma dentro il mio cuore non c'è, che l'angoscia sempre rinnovata delle mie disillusioni. Io sono ormai vecchio e non saprò mai cosa sia l'amore. La donna ch'io cercavo non m'è, venuta incontro in nessun cammino e quando la vecchiezza è venuta ed ho avuto bisogno di riposo e di cure non ho trovato che una povera serva che abbia voluto il mio nome. E ora don Giovanni vive tra i suoi ricordi morti le sue speranze inutili e non ha altro piacere che quello di accendere il suo focolare con qualche lettera appassionata e profumata. L'Ebreo Errante stava ancora per trarre qualche sua filosofica conclusione dalle parole di don Giovanni ma in quel mentre un piccolo uomo ossequioso, tutto vestito di nero e con un neo sulla guancia sinistra, venne ad annunciarci che la birreria si chiudeva. Don Giovanni trasse dalla sua borsa una larga moneta d'oro ma il piccolo uomo la guardò e la rifiutò. Era un doblone di Spagna del 1662. Giovanni Buttadeo, più pratico, cavò di tasca una monetino di argento, la fece suonare sul tavolo e tutti e tre insieme uscimmo sulla piazza già deserta, ridendo rumorosamente senza alcun ritegno».
In questa pagina c'è uno dei medi preferiti dal Papini, quello della verità rovesciata: Papini è rimasto fedele fino all'ultimo a questo procedimento, per cui la verità sta esattamente dall'altra parte dell'apparenza, quasi si dovesse stabilire un equilibrio supremo fra la cosa come ci appare e il rovescio della cosa, che è in fondo sempre un procedimento di sollecitazioni e di provocazioni. Si direbbe che a Papini abbia sempre dato noia il mondo nelle sue diverse sistemazioni e da questo punto di vista si può benissimo dividere la sua vita in due grosse stagioni: in un mondo felice e organizzato si è avuto un Papini provocatore verso una specie di anarchia mentre dopo la guerra e in un mondo che non avrebbe più trovato i suoi equilibri fittizi Papini cambia campo, predice la necessità dell'ordine, rinnega il suo passato e invoca per tutti il rispetto dell'autorità. Se in un primo tempo i suoi autori sono stati Dostoievskij e Nietzsche, dopo il '20 avremo il ritorno a Carducci e ai Padri della Chiesa, fino a concludere tutta la strada nell'esaltazione di Dante (per cui, come si ricorderà, valevano tre condizioni: l'essere italiano, anzi fiorentino, l'essere cattolico e l'essere scrittore). Ma stiamo attenti a non servirci di queste indicazioni in un senso esclusivo e assoluto: per Papini ha sempre ragione una forma dialettica della verità, in realtà i suoi punti fermi devono essere stati pochissimi e gli stessi dagli anni dello Sturm und Drang fino a queste ultime stagioni di apparente conformismo. C'è stata, sì, una festa di nomi, c'è stata, si, una lunga stagione di inquietudini, di fermenti e di
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sollecitazioni in tutti i sensi ma la provocazione valeva soprattutto per gli altri, altrimenti il Papini sapeva benissimo sin da principio a che cosa voleva arrivare, sapeva soprattutto quello che voleva per compiere la sua storia d'uomo. Ciò che invece conta — secondo me — è il clima che nasce da questi continui mutamenti, da sbalzi di umore, da questa lotta fra lo stroncatore e l'esaltatore, insomma dai giorni dell'uomo che vuole essere un 'testimonio' ora appunto in queste fratture gli è capitato sovente di cedere a un senso alto di nostalgia, di trovare per via naturale quella poesia che aveva affannosamente inseguito dai pretesti dell'arte d'eccezione e d'avanguardia. Allora quando Papini è raggiunto da questo segreto pudico di malinconia ci dà le sue cose più belle e per questo non è possibile fare una storia della poesia del Novecento lasciando da parte il suo nome o libri come Opera prima, Giorni di festa, Cento pagine di poesia e Pane e vino, anche se quest'ultimo volume è un po' sacrificato da un eccesso di volontà e da un inutile senso del programma. Bisogna ricordare una pagina stupenda come San Martin La Palma o come Quinta poesia:
Al freddo sapore di mela renetta, in lingua, per tutta la bocca che succia ed aspetta, ritorna negli occhi la ciocca immobile al dolco d'autunno, sospesa alla voglia - una frasca di verde cognato a Vertunno distesa nel latte di vasca. Mela renetta che mordo, in questo riposo di festa, adagio, come un ricordo di dolcezza manifesta. Una mi basta: nel gusto di quell'istante, di quel morso, rivedo all'ombra obliqua del fusto passare il blù come un chiaro discorso. Tutto abbandono in disparte. Figliolo di terra ed erede d'incontrastabile parte il Dio mal creduto mi vede. Mia la foglia che strappo odorando le dita - ma più la discesa che rifarò, tra poco, pensando a me, sotto l'aria che pesa. Mia tutta, la campagna, in quel sapore che maturatamente si distrugge e si disfà, mio l'odore, l'afrore dell'imprecisa immensità. |
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Nessuno godrà quel che presi con la docile calma de' minuti, masticando le frutta di tanti paesi ricchi al sole e da me conosciuti. Ma nel termine d'ogni dolcezza, nella più persa dimenticanza, un'acida puntura d'amarezza rompe ogni sacra alleanza. Io e me, nati al medesimo istante, consegnati ad una sorte, ritroviamo, in un ritmo andante, passi e sussurri di morte. Al largo, nell'ombra dell'acqua più zitta, ove il colpo del remo l'erba marina riasciacqua; stretti assieme affonderemo. Ma oggi, nell'ansia tranquilla di questa giornata che affretta la sera, non lascio una stilla del sugo di sole di mela renetta. |
O si legga anche Ottava poesia:
Quaderno bianco, principio di giorno, conto vergine, pagina prima - non si parli di ritorno che in cima all'ultima cima. Chiara di foglie tenere verdezza, tepido odor di canto per le vie, ricompensa alla mia grandezza incoronata di gelosie. Mai come in questa mattina nuova, con nuovo cuore martello col passo la strada, che il corpo ritrova tra le muraglie doppie di sasso. Marcio a spinte d'istinto: mi volto intorno a me, padrone del deserto, nel cavo silenzio mi ascolto parlare convinto ed aperto. Alla fine, e per sempre, solitario: lieto, leggero, sigaretta in bocca: fuor del vero e dell'ordinario vo dove nulla mi tocca. |
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Ogni cosa che guardo mi faccio: son l'ombra del muro, la luce de' lumi il sole respiro ed abbraccio senza paura che mi consumi. Son di me stesso l'amato amante, bado labbro con labbro, mi stringo la mano con mano bruciante, mi posseggo intero e non fingo. Non siamo più coppia - son l'uno partorito dal proprio amore; son chi non cerca nessuno, sazio appena del suo furore. Perduto in un sollievo di fantasia, non c'è, per lo sguardo, orizzonte, sopra la terra fatta mia, tutta rinchiusa nella mia fronte. Carezze d'aria dal cielo al mio viso, ardente di sommossa volontà, danno al bandito deriso l'ultimo tocco di maestà. Ma quando al finire del giorno ritrovo, stracco e freddo, la fossa della strada, nella mezzombra lilla del ritorno sono il povero triste a cui nessuno bada. |
O si scelga ancora dai libri di prosa, dall'Uomo finito, dall'Uomo Carducci (coll'immagine del Carducci intravvisto alla Nazionale di Firenze...), tutto per il bilancio che ci interessa. Ma forse l'unico bilancio vero ce l'ha offerto proprio Papini: leggiamolo dall'ultima pagina dell'Uomo finito, una pagina che porta la data del 1912; a quaranta anni di distanza sapremo se è vero, se Papini gli è rimasto fedele, insomma giudichiamolo sulle sue parole:
«Eccomi qua: mi sono aperto e sparato: ho messo a nudo visceri e nervi come in tante tavole di anatomia. Se vorrete potrete far conoscenza col più vero me stesso e salvarvi dai giudizi precipitosi. Qui dentro non c'è la mia biografia ma c'è il corso esatto dei miei avvenimenti interiori. Tutto il resto dell'opera mia trova qui la sua spiegazione e la sua chiave. Non è questa un'opera d'arte: è una confessione a me stesso e agli altri. Qui imparerete a conoscere il misantropo sentimentale e ingiuriatore che è riuscito, se Dio vuole, così profondamente antipatico a tanta gente. Vi dò nelle mani il mio spirito, vi squaderno i documenti e le difese. Su questo e con questo voglio essere giudicato. Io seguiterò a fare, a lavorare, con voi, accanto a voi, ma un periodo della mia vita s'è chiuso e voglio che si tenga conto di questo mio disordinato sfogo in cinquanta capitoli... ».
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Fermiamoci qui, e diamogli atto di una cosa: Papini ha continuato a lavorare, ha lavorato per noi, anche quando eravamo dall'altra parte, anche quando la nostra verità negava quella sostenuta da Papini. E' su questo punto che mi sembra di dovere insistere: davvero è possibile dimenticare tutto questo lavoro, anche se a volte è apparso frutto di uno 'sfogo disordinato'? Non lo credo, non credo che sarebbe giusto da parte nostra: Papini è stato il testimonio più vivo fra noi, il testimonio che eccita la nostra passione e scatena risentimenti, impeti d'ira, ribellioni. In una letteratura che tende alla morte, allo stagno, alla ripetizione accademica, come la nostra, sarebbe stupido da parte nostra sottovalutare un esempio simile, anche se, come abbiamo detto, a volte tale esempio si è apertamente contraddetto e negato. Un bilancio quindi che esige la nostra gratitudine e siamo contenti di dirlo oggi a Papini che ha superato i settant'anni e continua a lavorare, oggi che si compiono i cinquant'anni dal suo primo manifesto al tempo del Leonardo.
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